
La Claustrofobia
La claustrofobia è la paura intensa e irrazionale dei luoghi chiusi. Se siete arrivati qui di sicuro avrete già scorso su altri siti, diversi elenchi di luoghi deputati a suscitare terrore in chi soffre di claustrofobia: ascensore, aerei, luoghi affollati, apparecchi per risonanza magnetica o tac…
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- Cos’è la claustrofobia
- Claustrofobia: perché?
- Cause della claustrofobia
- La claustrofilia: gioia nel rinchiudersi in uno spazio sicuro
- La cura
Cos’è la claustrofobia
Contrariamente a quanto si crede ciò che produce profondo disagio non è l’assenza di spazio di per sé, ma la ridotta possibilità di muoversi: ad esempio, il rimanere chiusi fuori su un balcone può suscitare lo stesso terrore del rimanere chiusi in ascensore. L’impossibilità di poter avere il controllo sul come e il quando muoversi evoca spesso fantasie di abbandono, di forte impotenza di non poter ricevere soccorso da nessuno. Non è pertanto una caratteristica fisica dell’ambiente: il fatto che lo spazio sia ridotto, che ci sia poca aria o una ridotta libertà di movimento; ma il fatto che questo spazio non sia sotto il pieno controllo della persona a suscitare la profonda ansia.
In questione non è quindi l’oggettiva quantità di spazio oggettivo e vitale. Questo scenario dell’essere chiusi a chiave o intrappolati senza via di fuga permette ad una specifica e caratteristica convinzione delirante (si intende un’idea, anche realistica, che è impossibile mettere in discussione anche di fronte ad evidenze che la contraddicono) di prendere piede: se rimango bloccato qui dentro (o fuori) nessuno mi verrà a soccorrere. La persona può avere il telefonino a portata di mano, può essere in un ascensore all’interno di un luogo pubblico e affollato, ma niente, la convinzione che nessuno verrà a soccorrerlo in tempo, o comunque si interesserà a lui permane.
Già questo fa riflettere perché indica che ciò che suscita panico è una caratteristica umana dell’ambiente, o meglio: un aspetto che la persona ha umanizzato: quel luogo è angosciante perché evoca la propria impotenza rispetto a un bisogno. D’altronde la stessa etimologia della parola, claustrum fa riferimento a luogo chiuso a chiave piuttosto che a luogo ristretto o angusto.
Claustrofobia: perché?
Detto ciò siamo solo all’inizio di una più o meno lunga ricerca: qual è il bisogno che suscita un tale disagio; di quale bisogno o desiderio si tratta? Perché promuove un senso di impotenza? Perché è così intollerabile da dover essere nascosto o dissimulato attraverso una paura irrazionale verso i luoghi chiusi? E perché poi proprio i luoghi chiusi? Non potevo avere il terrore delle forbici, o dei luoghi alti o semplicemente dei lupi che tanto non li si incontra mai?
Purtroppo per rispondere a queste domande non si può ricorrere a facili generalizzazioni. Un punto fermo e fondamentale per capire il disagio psicologico è che quando ci troviamo di fronte ad un sintomo, un disturbo, un qualcosa che ha accampato sufficienti diritti per comparire in un qualche manuale di psicopatologia, ci troviamo di fronte a una sorta di occasione persa. Mi spiego meglio. Quando vi capita di vivere un’esperienza, vi succede di avere delle percezioni, molte sensazioni, qualche pensiero e svariate emozioni. Il cumulo di tutto ciò andrà a definirvi o ridefinirvi in ciò che pensate, provate e siete. Ecco, può accadere a quel punto un inciampo più o meno grosso, e quella esperienza lì, a causa di un forte dolore che può finire per procurarvi, se ne rimane semplicemente non pensata, o non sentita, o in casi ancora peggiori non percepita…insomma può accadere che a causa dell’impossibilità di poter tollerare un qualche dolore la vostra mente deciderà di non lasciare spazio a qualcosa di vissuto. Ma il fatto è che la vostra mente, per quanto si creda potente, non ha il potere di cancellare l’esistenza materiale di ciò che voi, con il vostro corpo, vi è capitato di vivere. Da qui iniziano i conflitti e tutta una serie di problemi un po’ barbosi per alcuni, che noi psicologi studiamo da poco più di un secolo. Ora una di queste conseguenze, a determinate condizioni che rendono questi fatti un po’ più ricorrenti, è proprio la comparsa di un sintomo psicopatologico.
Facciamo un esempio
Ora chiedo scusa a tutti i miei colleghi che studiano con passione da anni la nostra materia, ma per semplificare al massimo farò un esempio scemo: invece di piangere in modo disperato e senza tregua per giorni perché la mia ragazza mi ha lasciato per il mio migliore amico, mi ritrovo a concludere frettolosamente che in fondo è meglio così. Tuttavia dopo qualche giorno compare un fastidioso eritema la cui origine nessun dermatologo da cui vado per consulto è in grado di spiegarmi. L’occasione persa cui mi riferisco è quella di poter riflettere a pieno sull’esperienza vissuta, nel bene e nel male delle emozioni che mi ha fatto vivere, e che invece di condurre ad un ampliamento del senso di sé (ad es. ora so come riconoscere i veri amici, le ragazze di cui mi posso fidare, ma soprattutto come pormi in modo diverso in un rapporto perché sia più autentico e gratificante), produce un sintomo (l’eritema nel nostro caso), simile a tanti altri eritemi e di per sé un po’ insignificante. Ora il punto è che la varietà delle esperienze è infinita mentre la psicopatologia in confronto è molto ristretta e misera. Dietro un sintomo claustrofobico, come ad un eritema ci possono essere infinite varietà di personalità ed esperienze non vissute da scoprire, coltivare e far crescere: pertanto la psicopatologia si ha quando da un qualcosa di sottile, unico e vitale si è arrivati a qualcosa di comune e non differente da altri. Non ha molto senso chiedersi che cosa significa la claustrofobia, ma piuttosto cosa esprime la mia claustrofobia, cosa dice di me, cosa dice a me e alle persone che mi sono intorno.
Vi chiedo ora di non fissarvi troppo sull’esempio scemo di cui sopra. Lì parlavo di un’esperienza in particolare, ma la cosa è molto più complessa. Di solito si tratta di una serie di esperienze tra loro concatenate, o di un modo tipico di esperire, un qualcosa che può diventare o meno parte della propria personalità. Insomma è molto difficile da spiegare meglio in un post, e sarebbe inevitabilmente riduttivo e poco rispettoso soprattutto per chi soffre di questi o altri disturbi. Ci tengo solo ad aggiungere che l’idea che vi sia l’esperienza traumatica da ricostruire o scovare nei meandri del proprio inconscio è un idea un po’ agée, oltre che falsa. La troverete nei film di Hitchcock e lì funziona benissimo, ma solo lì.
Cause della claustrofobia
I diversi studiosi che si sono occupati di claustrofobia, hanno formulato alcune ipotesi. Ora non vi dovete immaginare dei dottori in camice bianco e occhiali che osservano grandi gruppi di persone claustrofobiche, che somministrano loro questionari, o applicano elettrodi alla testa alla ricerca di evidenze scientifiche. La scienza psicoanalitica si basa sull’ascolto di ciò che dicono i nostri pazienti. È un ascolto controllato e rigoroso, nel senso che chi ascolta è uno psicoanalista allenato a tollerare, circoscrivere o più semplicemente contemplare l’effetto della propria soggettività nell’ascolto dell’altro. Si tratta quindi di un’obiettività, se proprio di obiettività vogliamo parlare, piuttosto speciale; a parere di alcuni, degli psicoanalisti ovviamente, l’unica cui conta veramente affidarsi quando ci si occupa di aspetti così ineffabili quali l’interiorità e i legami tra le persone.
Come appropriarsi della propria claustrofobia
Qui di seguito non esporrò in modo sistematico queste ipotesi, ma cercherò di operare una sintesi. L’intento è quello di suggerire in chi legge più domande che risposte perché lo scopo ultimo è quello di appropriarsi della propria claustrofobia di modo che non appartenga più ad un libro di psicopatologia ma ad un aspetto della propria persona. Questo, ovviamente, per far sì che possa tramutarsi in qualcos’altro che non sia solo il terrore dei luoghi chiusi.
Prendete in considerazione l’esperienza di non riuscire ad esprimersi: non è forse quella una situazione in cui ci si sente imprigionati in un’emozione che non ci si sente liberi di comunicare in parole? Se il problema della claustrofobia fosse connesso alla possibilità di esprimere emozioni di cui si teme di perdere il controllo? Altro esempio è il timore verso i propri sentimenti di odio, rabbia e furore. Se questi fossero liberati attraverso una loro espressione, o anche solo attraverso una presa d’atto cosciente, non porterebbero ad una situazione di pericolo?
In gergo, gli psicoanalisti indicano questo pericolo nei termini di distruzione del proprio oggetto buono interno. Cioè quell’aspetto di me, che conservo dentro di me, che mi rassicura quando le cose vanno storte, che è sempre in grado di farmi credere che nonostante tutto le cose andranno bene e che la mia vita non sarà in serio pericolo. Trovato? Ecco se quell’aspetto di me è così potente da rassicurarmi, allora perché, nonostante tutto le cose mi vanno male? È colpa sua, è lui che non vuole aiutarmi! Ed ecco che in seguito ad una frustrazione rischio di prendermela con lui fino ad ucciderlo, ad annientarlo.
Lo so, sembra un po’ teatrale, e non è neanche una pièce di altissimo livello…tuttavia ciò che qui descrivo in modo elementare, in una mente adulta e complessa viene vissuto solo nei suoi derivati: non ci si rende conto di tutto ciò ma solo di alcune conseguenze, associazioni ed emozioni evocate da queste. Ad esempio è molto frequente riscontrare un pervasivo senso di colpa, la paura di non proteggere o non prendersi abbastanza cura delle persone che si amano, o al contrario un senso di indifferenza, un appiattimento delle emozioni.
Ora prima di fare un’ipotesi ancora più ardita, torniamo un attimo su “l’oggetto buono interno”. Perché oggetto? Non poteva chiamarsi voce interiore? Parliamo di oggetto perché ha origine da un rapporto con qualcuno, i genitori in primis e poi molti altri che sono stati per noi importanti e oggetto di una relazione. Ora l’ipotesi ardita è che quello stesso oggetto è così importante e potente che non sono io a contenerlo o possederlo, ma è lui a contenere me; cioè non è dentro di me, ma sono io ad essere dentro di lui, proprio come un bambino nella pancia della mamma: allora se lo uccido rischio di rimanere dentro una madre morta?! Non è forse il timore di essere sepolti vivi, così caratteristico di alcune claustrofobie?
La claustrofilia: gioia nel rinchiudersi in uno spazio sicuro
Alcuni psicoanalisti, uno in particolare (Fachinelli) hanno esplorato, condiviso ed in qualche modo accertato le molte gioie del rinchiudersi in uno spazio sicuro secondo il modello del soggiorno fetale, dando a questa tendenza universale il nome di claustrofilia. Perché allora per alcuni ciò che per altri è un’esperienza attraente e potenzialmente ristrutturante, è qualcosa di potenzialmente letale?
Il linguaggio ci sostiene quando dobbiamo descrivere l’esperienza della nascita in relazione a qualcuno, in relazione alla madre in particolare: sono stato partorito, sono stato generato; così come ci sostiene nel riferire l’esperienza, per quanto immaginaria sia, dell’essere concepiti e questo sempre in relazione a qualcuno che concepisce…tuttavia non ci sostiene nel momento in cui dobbiamo descrivere l’esperienza dello stare nella pancia per nove mesi: come possiamo dire se vogliamo intendere che siamo stati nella pancia per nove mesi: è l’esperienza dell’essere gravidanzionati ?
Eppure è un’esperienza lunga e di cui ormai si riconosce la valenza psichica: la mente ha già delle funzioni senzienti dopo i primi tre mesi; c’è un’attività cerebrale e pertanto anche mentale; ci sono dei movimenti di suzione e sono sviluppati gli organi percettivi olfattivi, uditivi etc. Inoltre evidenze sperimentali ci dicono che è già attiva una prima forma di memoria che consente al neonato di riconoscere come familiari le voci che ha sentito nel corso della gravidanza.
Mentre possiamo tranquillamente esprimere il concetto di rinascita in relazione ad alcuni eventi di vita, ci è difficile poter esprimere il concetto di essere stati incubati: a meno che, certo, non siamo noi ad incubare; se siamo noi degli incubatori possiamo ricorrere facilmente a questo frame di esperienza vissuta (incubare una malattia, covare un rancore, etc).
Permettetemi un piccolo excursus etimologico. “L’incubare” oggi si associa facilmente alla macchina per bambini prematuri: come se non disponessimo di altro termine che non implichi che l’esperienza dell’essere nella pancia è disumanizzante per il contenitore. Facendoci soccorrere dall’etimologia scopriamo inoltre che l’alone negativo era presente anche in passato; dove al posto della disumanizzazione, data dalla sostituzione del contenitore materno con il macchinario, troviamo qualcosa di demoniaco. Incubare ha la stessa etimologia di incubo, il cui significato è di giacere sopra, covare da un lato, e dall’altro descrive l’abitudine del demone incubus che ha l’abitudine di giacere sessualmente in modo disordinato con le donne o di premere la notte l’epigastrio ai dormienti causando loro sensazioni angosciose.
La fragilità, il tabù con cui ci si avvicina a questo tipo di esperienza non è solo semantico o linguistico: esprime chiaramente il timore reverenziale che implica l’essere racchiusi nel corpo di qualcuno: dipendere da lui-lei-esso nutrirsi del suo stesso nutrimento e non poter uscire se non grazie a lui: un vero incubo. In quest’ottica si può certamente meglio capire come sia possibile o prevedibile “l’incidente di percorso” della claustrofobia, all’interno di una più generale tendenza a cercare come rivitalizzante e creativa una situazione claustrofilica.
Claustrofobia: la cura
La claustrofobia, come ogni altro disturbo prodotto dalla mente, è l’espressione di una difficoltà nella produzione dei significati. La comprensione è la via della cura. Per comprensione non si intende voler spiegare la claustrofobia, ovvero risalire alle cause più o meno remote, più o meno specifiche o generali da cui ha preso origine il disturbo. Si intende piuttosto dare un senso a un sintomo: ciò che può aiutare è comprendere ciò che globalmente la claustrofobia esprime. L’esplorazione dei significati, o più propriamente dell’attività di produzione dei significati con cui la claustrofobia interagisce, è la strada che la psicoterapia psicoanalitica percorre per una sua cura. Sono molto in voga gli approcci cognitivo-comportamentali. Questi lavorano su due piani sincronici: uno è di suggestione e l’altro è di riduzione.
Il sintomo claustrofobico è ridotto ad una malattia assimilabile a quelle del corpo: è dovuta ad una causa (ad es. errate convinzioni) che possono essere rimosse attraverso l’adeguato intervento del terapeuta secondo un piano di sconferma delle convinzioni alla base della malattia. Spesso vengono previsti degli interventi in cui le persone si allenano a fronteggiare gradualmente situazioni per loro ansiogene. La garanzia del processo è dato dalla suggestione che il terapeuta opera sul paziente. Il terapeuta è l’esperto che detiene il sapere e che si fa garante dell’efficacia dell’intervento. È un approccio efficace nel breve termine, ma i cui risultati non sono solitamente particolarmente stabili. È molto importante in situazioni acute, in cui si è persa la speranza in qualsiasi tipo di miglioramento, perché aiuta le persone a ritrovare un po’ di fiducia.
Sarebbe poi importante che questa fiducia venisse impiegata per avviare un percorso di crescita personale attraverso un’esplorazione di sé e dei propri legami con gli altri piuttosto che trasferita sui presunti poteri taumaturgici del terapeuta. E questo è un esito purtroppo prevedibile nei metodi che poggiano sul potere della suggestione.