La Psicoterapia funziona?
Due inchieste giornalistiche internazionali a confronto
La psicoterapia funziona? Quali tipi di psicoterapia sono più efficaci? E per quali disturbi? Perché funziona? Queste sono le domande che normalmente si pone chi desidera rivolgersi ad uno psicologo per le sue difficoltà. Sono domande a cui i ricercatori tentano di rispondere da sempre, dalla nascita della psicoterapia in poi. Oggi proviamo a riepilogare quanto emerso da due inchieste giornalistiche riportate sulla rivista Internazionale nel 2016 e nel 2023.
La prima inchiesta è di Oliver Burkeman, pubblicata sul quotidiano britannico “The Guardian” con il titolo (tradotto) “La rivincita di Freud”; la seconda è di Stefanie Kara e Corinna Schops, pubblicata sul quotidiano tedesco Die Zeit con il titolo (tradotto) “Come uscire dalla depressione”.
La rivincita di Freud
In questa inchiesta si parte dalla considerazione dei diversi errori attribuiti alla psicoanalisi e di numerose smentite alle sue teorie. Queste critiche che da sempre sono state mosse alla psicoanalisi, hanno più volte fatto dichiarare a diversi studiosi che la psicoanalisi sarebbe presto sparita. Tuttavia questo non è mai accaduto e tuttora la psicoanalisi vanta un discreto credito tra i professionisti della salute mentale. Inoltre iniziano ad emergere chiare rilevanze empiriche a sostegno della sua efficacia.
La Psicoterapia Cognitivo Comportamentale
La prima psicoterapia che è stata in qualche modo “manualizzata”, ovvero di cui sono state definite in modo chiaro e conciso le pratiche operative è la terapia cognitivo comportamentale (Tcc). Questo ha permesso ai ricercatori di studiarla più agevolmente. Il giornalista descrive la Tcc come una psicoterapia che si “concentra sulla modificazione degli schemi mentali che provocano emozioni negative. Una seduta di Tcc può consistere nel tracciare un diagramma per individuare i pensieri automatici autocritici che facciamo quando incontriamo un ostacolo”. Dagli anni ’60 in poi si sono accumulati molti studi che hanno dimostrato l’efficacia di questa psicoterapia. Tuttavia uno studio del 2015 ha rilevato un’inversione di tendenza, dal momento che si sarebbe osservato come la Tcc sia sempre meno efficace nella cura della depressione, tanto da indurre la domanda su un eventuale effetto placebo della Tcc: ha funzionato finché le persone hanno creduto che fosse una cura miracolosa?
Emergono i primi dati sulla psicoanalisi
Affianco a questo studio, sempre nel 2015, ne è uscito un altro da parte del servizio sanitario britannico (Nhs) sulla psicoanalisi a lungo termine per curare la depressione cronica. La conclusione era che per le persone gravemente depresse, diciotto mesi di psicoanalisi funzionano meglio e hanno effetti più duraturi della “solita cura” offerta dall’Nhs (sedute di Tcc). Inoltre due anni dopo la fine delle psicoterapie psicoanalitiche, il 44% dei pazienti non rientrava più nei criteri della depressione contro solo il 10% di chi aveva svolto la Tcc.
Il giornalista continua riportando analoghi studi che ottengono risultati analoghi dai quali si finisce per evincere che sì, la terapia psicoanalitica può essere lunga, complessa e a tratti contorta, ma che è proprio questo che funziona dal momento che le relazioni umane sono molto complesse.
Altre critiche alla psicoanalisi
Vengono prese in considerazione ulteriori critiche mosse alla psicoanalisi. Ad esempio il fatto che alcune sue teorie non sono falsificabili (se il paziente non accetta l’interpretazione dell’analista, vuol dire che agisce una resistenza inconscia e non che l’interpretazione sia sbagliata) e il fatto che offre ai pazienti una “scappatoia” (possono parlare di sé per anni senza modificare i propri comportamenti).
In realtà queste sono critiche piuttosto ingenue a cui già Freud aveva ampiamente risposto. Ad esempio diede precise indicazioni per comprendere se un’interpretazione fosse corretta o meno in base alla risposta del paziente, ovvero in sostanza se conduceva ad un avanzamento nel lavoro terapeutico (link). Sull’obiettivo di modificare il comportamento del paziente la psicoanalisi concorda ma ritiene che questo può e deve essere raggiunto come effetto del lavoro di elaborazione e rielaborazione del proprio funzionamento mentale. Tuttavia, in alcuni casi, prevede di proporre delle modifiche comportamentali laddove queste possano favorire il lavoro di rielaborazione terapeutico. Un esempio su tutti è l’invito al paziente di esporsi gradualmente alle situazioni fobiche per permettergli di elaborare i pensieri ad esse connessi. Dunque più che una questione di obiettivi è una questione di metodo.
La semplificazione e la manualizzazione delle pratiche psicoterapeutiche operata dalla Tcc ha condotto ad alcune derive piuttosto singolari che il giornalista riporta. Ad esempio qualche anno prima il sistema sanitario britannico aveva istituito un programma di intervento terapeutico che alternava alla Tcc delle “sedute” con un computer. Veniva chiesto ai pazienti di compilare questionari e moduli o di interagire con dei software e nei pazienti questo ovviamente aumentava il senso di solitudine più che lenire la loro sofferenza.
Altri studi empirici
Il giornalista riporta altri studi più sistematici e su vasta scala. Nel 2004, da una meta-analisi (sono studi che mettono insieme un vasto gruppo diversificato di diversi studi empirica già svolti) emerse che per molti disturbi una psicoterapia psicoanalitica breve era efficace quanto qualsiasi altro metodo, e alla fine quelli che ne seguivano una stavano meglio del 92 per cento degli altri pazienti prima della terapia. Inoltre uno studio del 2006 su 1.400 persone che soffrivano di depressione, ansia e disturbi correlati si rivelarono favorevoli alla psicoterapia psicodinamica breve. Nel 2008 uno studio sul disturbo borderline giunse alla conclusione che a cinque anni dalla fine della psicoterapia psicodinamica, solo il 13 per cento dei pazienti ne soffriva ancora.
Altri studi più in generale mostravano come gli effetti di una psicoterapia psicodinamica si mostrassero ed in alcuni casi incrementassero mesi dopo la fine del trattamento, rispetto alla psicoterapia cognitivo comportamentale.
Infine dalla disamina sugli studi di efficacia sulla Tcc è emerso che i ricercatori spinti dal desiderio di fare esperimenti che dessero risultati chiaramente interpretabili, spesso avevano escluso fino a due terzi dei possibili partecipanti, di solito perché avevano diversi problemi psicologici. Tuttavia nella vita reale i problemi psicologici sono profondamente radicati nella personalità. Quello che portiamo in terapia (per esempio la depressione) potrebbe non essere quello che emerge dopo diverse sedute.
E dunque?
Il giornalista conclude che la disputa non può essere risolta decidendo tra studi empirici contrastanti. La questione è molto più complicata. Intanto è necessario chiedersi cosa è un buon risultato. Gli studi misurano il sollievo dai sintomi, ma una delle premesse della psicoanalisi è che per vivere una vita soddisfacente questo non basta. Ad esempio alcuni psicoanalisti sostengono che tante cose saltano fuori solo quando le persone hanno un lapsus, ci confidano una fantasia o usano una determinata parola: il compito dell’analista è essere ricettivo e attento a tutte queste cose, per poi aiutare le persone a dare un senso alla loro vita.
Questa posizione, apparentemente poco scientifica, negli ultimi tempi ha trovato riscontro dagli studi di neuroscienze. Il cervello elabora le informazioni più velocemente di quanto la mente possa esserne consapevole. Per questo, quando ne prendiamo coscienza, un’esperienza è stata elaborata già molte volte, ha attivato ricordi e ha dato via a complessi schemi di comportamento. Questo non si concilia con le premesse della Tcc, secondo cui con il giusto allenamento possiamo imparare a cogliere sul fatto tutte le nostre reazioni mentali sbagliate. Al contrario sembra confermare l’intuizione della psicoanalisi, cioè che il nostro inconscio è gigantesco e controlla quasi tutto e che inevitabilmente vediamo la vita attraverso lenti forgiate dal passato, che possiamo solo sperare di modificare parzialmente, con il tempo e con grande sforzo.
Come uscire dalla depressione
Questa inchiesta si concentra invece su un metodo sperimentato in un istituto in Germania presso Greifswald diretto dalla psicologa Eva-Lotta Brakemeier. In questo istituto si dà particolare attenzione a come i pazienti rispondono ai trattamenti per poterli adeguarli di conseguenza. L’assunto è che “nessuno corrisponde davvero al paziente medio delle ricerche scientifiche. Ognuno reagisce a modo suo alla psicoterapia, ed è proprio questo aspetto che va sfruttato meglio.”
Il metodo terapeutico
Il metodo di riferimento seguito in questa clinica è stato sviluppato dallo psicologo statunitense James McCullough con l’intento di combinare tecniche psicodinamiche e cognitive-comportamentali. Vi è attenzione al passato, a come le prime relazioni possano influenzare il paziente e al tempo stesso il terapeuta tenta una correzione dell’imprinting negativo. Il metodo delineato si chiama cognitive behavioral analysis system of psychotherapy (Cbasp).
Un’altra importante acquisizione è il riconoscimento che la depressione deriva quasi sempre da problemi interpersonali: dalle difficoltà che nascono tra le persone: tra padri, madri e figli, ma anche tra capi, colleghi e dipendenti. Dunque nei momenti più acuti della depressione, si punto ai conflitti interpersonali nel qui e ora piuttosto che all’analisi dell’influenza delle relazioni passate.
Altre strade
La novità dell’approccio seguito in questa clinica è tuttavia la possibilità di applicare nuove e diverse tecniche a seconda dell’andamento della psicoterapia. Altre tecniche possono avere a che fare con l’impiego dell’immaginazione, con l’invito a concentrarsi su dei conflitti o contrasti interpersonali, o anche invitare in seduta un parente o una persona direttamente coinvolta in quel conflitto.
Per cercare di comprendere meglio quando e se percorrere altre strade, ai pazienti viene costantemente chiesto di compilare dei questionari sia per capire come stanno e come sta andando la psicoterapia, ma anche per tentare di prevedere quello che succederà applicando dei modelli di analisi statistica molto simili a quelli che si usano in altri sistemi complessi come ad esempio nel campo della meteorologia. Normalmente e attualmente questo è lasciato all’intuito e alla sensibilità del terapeuta, abilità che affina grazie a lunghi anni di formazione, autoanalisi ed esperienza.
Gli antidepressivi
Discorso a parte merita l’impiego di farmaci antidepressivi. La ricerca ne sta sempre più ridimensionando la portata. In molti casi sono indispensabili, in altri utili in relazione ad alcuni momenti o fasi specifiche. Tuttavia non tutte le persone reagiscono allo stesso modo agli antidepressivi (circa un quarto dei pazienti reagisce bene). Inoltre gli effetti dipendono molto anche dalle paure e dalle aspettative dei pazienti.
Quello che dalle sue indagini, i giornalisti concludono è che gli antidepressivi finora impiegati non andrebbero demonizzati, ma non sono neanche miracolosi. Non spingono il paziente a fare le scelte giuste. Questo può farlo solo la psicoterapia che è il solo modo per prevenire le ricadute.
Tuttavia delle indicazioni interessanti provengono dagli studi sugli effetti sulla depressione dato da un anestetico poi usato anche come droga ricreativa (la chetamina). Questo farmaco si è rivelato capace di dare rapidamente sollievo a molti pazienti depressi, anche se non ha nulla a che vedere con la serotonina o con altri neurotrasmettitori simili. A quanto pare, questa sostanza migliora la trasmissione delle informazioni tra le cellule cerebrali, stabilendo perfino nuovi collegamenti, nuove sinapsi. È un fenomeno così detto di “neuroplasticità”, molto importante per i processi di apprendimento.
La plasticità
In base a questi studi e alle esperienze riscontrate in psicoterapia sembra dunque possibile formulare una nuova ipotesi. Le depressioni potrebbero scatenarsi al diminuire della plasticità, mentre aumentandola, si assisterebbe a un attenuarsi della malattia. Lo stress contribuisce alla diminuzione della plasticità e deriva a sua volta da carichi eccessivi e da traumi passati, due fattori scatenanti della depressione. Chi perde la capacità di imparare cose nuove tende più degli altri a rimuginare, a chiudersi in stesso. Dunque per imparare nuovi schemi occorre sia la plasticità cerebrale sia nuove esperienze di vita.